Linda, beffata dalla promessa del successo
“Stiamo per fallire per una società delle Poste”
Nel 2007 un’opportunità nei punti vendita con tutta la gamma di prodotti postali per famiglie e uffici. Ma il franchising di Kipoint non decolla anche per via dei prezzi imposti e cominciano ad accumularsi i debiti
Linda Romano all’interno del Kipoint di San Giorgio a Cremano
“Cercavamo un’attività che potesse aiutare la famiglia a campare, non ad arricchirsi. Ci siamo messe in società, io e mia sorella Lisa che anni fa è dovuta partire e ha trovato lavoro a Londra, da Harrods. Era un modo per farla ritornare in Italia. E non ci siamo riusciti”. Linda Romano, 30 anni, di San Giorgio a Cremano, laureata in Lettere, un figlio nato nel 2006, un secondo in arrivo, ha fatto diversi lavori sempre da disoccupata, “come la maggior parte dei napoletani”. Attraverso un’amica di Marano che aveva già aperto un punto vendita, nel 2007 scopre Kipoint, società delle Poste italiane. Una rete di franchising di spedizioni commerciali sul territorio nazionale, punti vendita che offrono una serie di servizi al pubblico: small office, house office, tutta la gamma di prodotti postali per famiglie, uffici e piccole imprese.
Nel 2003 è Sda spedizioniere, partner del gruppo Poste italiane, a inventarsi questo progetto, perché la capogruppo intende sganciarsi dal servizio di spedizione pacchi e nel frattempo si è prospettata la privatizzazione dei servizi postali, e vuole assicurarsi una fetta del mercato e controllarlo. “Erano i primi tempi, non c’erano neanche molti Mailbox, negozi che fanno spedizione”, racconta Linda, ragazza vitalissima e intraprendente. Il progetto si presenta come una straordinaria opportunità. “Entro in contatto con un loro rappresentante del franchising. Dopo vari incontri ci dicono che aprire un Kipoint costa circa 70 mila euro. I soldi non li abbiamo sull’unghia, magari, mio marito lavoricchia abbiamo un piccolo ristorante a San Giorgio a Cremano”.
Il consiglio che riceve è fare la domanda a Sviluppo Italia. Una procedura lunga, due anni, ma l’istituto finanzia il franchising con l’intera somma, metà a fondo perduto, l’altra metà da restituire in sette anni con interessi abbastanza bassi rispetto alle banche. È la molla per aprire. I soldi a Kipoint vanno dati nel giro di un anno, divisi in varie tranche. Si trova il locale, in via Gianturco, a San Giorgio a Cremano, da ristrutturare, poi c’è l’allestimento che deve rispettare una precisa tipologia, nell’arredo e nelle dotazioni di materiale.
Altri 30 mila euro di spese. “Li racimoliamo con le riserve di mia sorella Lisa, le mie, 4 mila euro e tutti i risparmi della famiglia”. Le difficoltà si presentano subito. “Ci danno un cd con un listino, ma quei prezzi, ce ne accorgeremo molto presto purtroppo, sono alti, troppo per il Sud dove la concorrenza è spietata. La società non si fa viva mai, non segue l’andamento dell’attività. Ci arrivano caterve di prodotti da Posteshop da vendere, che acquistati alle Poste costano meno. Il nostro errore più grande: ci siamo fidati ciecamente di loro, perché erano le Poste italiane e invece avremmo dovuto leggere con più attenzione il contratto”.
Quando Linda Romano apre il negozio, il primo dicembre 2008, non sa che altri punti vendita sono già falliti in mezza Italia. Sommersi di debiti, molti lavorano solo per coprire i costi. Tutto accade nel silenzio generale, non un articolo di giornale, poche notizie e sparpagliate sul mondo dei Kipoint. “A marzo, finalmente, ci arriva qualche email. Ci mettono in guardia perché, leggiamo, ci è stato venduto un prodotto non valido. Ci rendiamo conto che i nostri prezzi, imposti, non sono competitivi né con gli altri concorrenti né con le Poste stesse. Anzi, il nostro maggior concorrente è proprio la Posta. Il contratto, poi, ci impone di spedire con unico corriere, Sda, quello delle Poste. Kipoint omette anche di dotarci di strumenti di lavoro come la macchinetta per pagare le bollette, quella per le raccomandate che noi stiamo facendo lo stesso agli sportelli postali per conto dei nostri clienti. Verso giugno ci arriva anche la polizia amministrativa: ci contesta l’esercizio senza licenze che Kipoint, come franchising avrebbe dovuto darci: internet point, pratiche, certificati per il vettore che trasporta il pacco in auto”.
Linda stringe i denti, con l’aiuto della famiglia si dà da fare per tirare avanti la baracca. Un’impresa ogni giorno più difficile. “Siamo stati costretti a fare telefonate pubblicitarie, persino un volantinaggio. I clienti stanno con noi perché hanno fiducia nel nostro operato”. Linda si sfoga: “In base ai nostri calcoli, almeno dopo un anno avremmo dovuto pareggiare. Invece perdiamo 1500 euro al mese. Mio padre si è giocato tutta la liquidazione di una vita intera di lavoro alla Telecom. Sacrifici per darci un’attività, ma ora i soldi da investire sono finiti. Lavoro dalle nove di mattina alle sette di sera. I conti non tornano mai: 470 euro al mese a Sviluppo Italia, 700 euro di affitto, spese condominiali, telefono 350 euro ogni bimestre, 2500 euro di spese al mese. Sono tre mesi che non pago l’Inps, che mi chiede 2800 euro all’anno per la minima pensione, 720 euro ogni tre mesi, solo perché hai la partita Iva aperta, a loro non interessa se fatturi e guadagni”.
Il progetto del futuro è diventato la precarietà quotidiana. “L’avevo vista come una prospettiva di lavoro, se tornassi indietro non lo rifarei mai. Siamo vincolate per sette anni, a meno che un fallimento faccia chiudere tutto prima, e io ci sono vicina”. Lei e altri giovani che si erano lanciati nell’impresa hanno firmato un esposto all’Agicom. “Pensavamo che non ci avrebbero preso in considerazione, invece l’Autorità garante ha comminato a Kipoint una sanzione di 100 mila euro per pubblicità ingannevole. È ancora poco e loro stanno già contestando”. Storia perfetta per una class action. “Non si può. Nel contratto c’è una postilla: è possibile solo un arbitrato, con spese legali fino a 50 mila euro”.
Dal 2008, per i Kipoint in Italia sono più le chiusure che le aperture, su circa 170, hanno chiuso già in 70, e molti sono sul punto di arrendersi. “Siamo sulle barricate coi fucili spianati”, dice l’avvocato Fabiana Caroli, di Bologna, che assiste molti neo imprenditori. Sostiene: “Sono aziende progettate per non funzionare. Ognuna ha debiti intorno ai 100-200 mila euro, anni di lavoro senza guadagno, giusto per tenere aperto il negozio. La Kipoint ha un passivo di 2 milioni e 500 mila euro. Il direttore generale divisione Kipoint è Francesco Montuolo. Abbiamo presentato una decina di denunce in varie Procure d’Italia, si sono tutte insabbiate”.
di PATRIZIA CAPUA da repubblica.it