Ven. Nov 22nd, 2024

franchising01Sarà il franchising a salvare il commercio al dettaglio? Dipingere la situazione in questo modo probabilmente è eccessivo. Anche perché la contrazione dei consumi registrata nel 2008 (-3% le vendite medie complessive, la peggior performance dal 1992) non permette a nessuno di sentirsi al riparo, né tantomeno di attribuirsi proprietà salvifiche. Di certo però lo scorso anno le catene in affiliazione sono andate in controtendenza. A dirlo sono le cifre elaborate dal centro studi Quadrante, specializzato in analisi e servizi di consulenza per le imprese del franchising: secondo i suoi esperti nel 2008 il giro d’affari dei punti vendita affiliati è cresciuto dell’1,5%, arrivando a sfiorare i 22 miliardi di euro, mentre il numero delle insegne attive e quello delle aperture si sono mantenuti sostanzialmente stabili (i dati, non ancora definitivi, indicano una «forchetta» compresa tra lo zero e il 2% in più). Insomma, niente di esaltante, soprattutto se si considera che fino al 2007 il tasso di crescita medio delle tre aree è stato rispettivamente del 6, dell’8,9 e dell’8%. «Ma si tratta comunque di numeri che testimoniano una tenuta importante» dice a Economy Luigi Grassi, economista ed esperto di politiche di marca del centro studi Farsi di Pinerolo. «Questo naturalmente non significa che il settore sia del tutto immune dalla crisi, ma di certo per sua natura dispone di anticorpi più attrezzati rispetto al commercio al dettaglio classico».
A confermare le parole di Grassi ci sono altri numeri, messi questa volta in fila da Confimprese (l’associazione che riunisce oltre 250 insegne del settore retail) nel suo ultimo rapporto Il franchising in Italia, presentato a fine 2008. Negli ultimi due anni, secondo il documento, la crescita degli esercizi commerciali tradizionali si è fermata a un modestissimo 0,18%, una media quasi 20 volte inferiore rispetto a quella dei negozi in rete. Mentre sul fronte dell’occupazione gli addetti del franchising sono passati da 176 mila a 183 mila (+3,5%), a livello complessivo la contrazione nel settore retail è stata di oltre 4 mila posti. «È possibile che una parte di quei 4 mila esuberi, però, sia costituita da persone che hanno deciso di mettersi in proprio, magari restando nel commercio e scegliendo una formula diversa come quella del network» osserva Grassi. «Se fosse vero, si tratterebbe di un altro importante segnale di vitalità».
Ma quali sono le ragioni che in un momento come questo potrebbero spingere un imprenditore a puntare sulla formula del franchising? Le prime due le hanno suggerite Luca Pellegrini e Mario De Vivo, rispettivamente presidente di Trade Lab e direttore marketing di Ovs Industry, sull’ultimo numero della rivista di settore Az Franchising. «Il sistema franchising divide il rischio d’impresa tra due soggetti diversi, riducendo quindi investimento ed esposizione per chi apre un nuovo esercizio» ha ricordato Pellegrino. Mentre De Vivo ha aggiunto che la formula di rete «permette di focalizzare meglio competenze, risposte, strategie commerciali e promozionali».
In uno scenario di scarse prospettive come quello offerto attualmente dall’Italia, poi, aprire un punto vendita in franchising può diventare una boa di salvataggio anche per chi è in cerca di un’occupazione a costi d’ingresso accessibili: nell’ultimo anno, secondo Assofranchising, questo è stato il motore principale della scelta per circa il 65% dei nuovi franchisee.
Tra gli effetti trainanti Confimprese include anche le dinamiche di mercato del nostro Paese, unica eccezione in un panorama occidentale che negli ultimi decenni ha realizzato grosse aggregazioni per aree tematiche (food, moda, arredo, credito al consumo e servizi). In Italia, invece, la distribuzione al dettaglio è ancora parcellizzata. L’unica eccezione è rappresentata dal comparto tessile/abbigliamento/calzature, forse non a caso uno degli ambiti a maggiore crescita, dove un negozio su dieci (uno su cinque se si escludono scarpe da adulti e intimo) opera all’interno di un network. Per questo molti addetti ai lavori continuano, nonostante la crisi, a suggerire investimenti in questo comparto, a patto di trovare il giusto equilibrio tra fascia di prezzo e qualità del servizio.
Ma Enrico Cietta, docente di economia della moda all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio La rivoluzione del fast fashion (Franco Angeli 2008), non è d’accordo: «Credo che le catene di abbigliamento in franchising stiano andando verso la saturazione» dice Cietta selezionando insieme con Economy sette settori su cui scommettere nonostante la crisi (vedere riquadro a pagina 86).
Anche se le premesse sono vincenti, naturalmente, nessun investimento può dirsi al riparo dai rischi: il turnaround dei punti vendita è una realtà, anche se il fenomeno appare più contenuto rispetto ai numeri messi in mostra dal commercio tradizionale. Non tutte le insegne danno la stessa garanzia di affidabilità per il partner né si può escludere, come già accaduto e non solo al Sud, il coinvolgimento della criminalità organizzata in alcune sigle, considerate un ottimo canale per il riciclaggio di denaro sporco.
E a dire il vero qualche ostacolo allo sviluppo del commercio in rete esiste anche sul fronte del credito: negli ultimi cinque anni, denuncia Confimprese, è stato concesso un finanziamento solo al 25% dei richiedenti. Il problema è che per le banche il franchising non è un biglietto da visita preferenziale e ogni piccolo imprenditore che intenda affiliarsi a un’insegna deve fare i conti con la richiesta di garanzie personali e di terzi. Anche su questo fronte, per fortuna, qualcosa sembra essersi sbloccato: nell’ultimo anno diversi istituti (Unicredit, Veneto Banca, Intesa Sanpaolo e Bnl) hanno stretto accordi con alcuni brand, prevedendo crediti a tassi interessanti per chi desidera legarsi a quelle insegne.

da Blogonomy

Di Margiov