La storia – Il palestinese e il cammello con gli occhiali
Shockabab, lo straniero che dà lavoro ai veneti: «Ho vinto la diffidenza»
Naser, 35 negozi e 400 dipendenti: ci ho messo otto anni
Sul tavolo un libretto che la dice tutta: «Metti in pratica quello che sai». Alle pareti, accanto alla foto delle figlie e di un incontro con Arafat, il faccione di un cammello con occhiali e barbetta che somiglia a un cartone animato. Poco più in là le immagini colorate di mille e un menu che sono un inno dissacrante al kabab. Naser Ghazal non sembra di ottimo umore. Comprensibile. Anche per lui sono giorni di Ramadan. Perfino qui si digiuna fino al tramonto, in questo angolo di Nord Est, in un capannone acquattato fra le villette, a due passi dal centro di Zero Branco. Giornate faticose per il re del kabab, per questo palestinese quarantaquattrenne che in otto anni ha messo in piedi un impero grazie al mitico involtone. La catena di franchising Kabab International, di cui Naser Ghazal è anima, corpo, creatività, organizzazione, passato, presente e futuro nonché direttore commerciale – è un’eccezione a più regole. Alla faccia della crisi e oltre ogni luogo comune sull’immigrato. Dal 2001 a oggi l’attività è cresciuta del trecento per cento. E non ha subìto pause in quest’ultimo anno. Dal primo Shockabab a Mestre, al numero 35 che aprirà a ottobre a Paese.
In mezzo ci sono i locali di Marghera, Mogliano Veneto, Preganziol, Scorzè, Treviso, Conegliano, per scendere in Calabria, Campania, Abruzzo e in Sicilia, e risalire, con qualche Falafel in più, perfino in mezzo ai monti, a Valle di Cadore. L’impresa va pesata nel modo giusto. Nel 2001 Naser distribuiva e consumava nei suoi locali 300 chilogrammi al mese di kabab. Oggi la media mensile è di 40/50 tonnellate, con punte estive di 60. Un record. Raggiunto anche grazie alla partnership con una Spa del settore, la Cattel Catering di Jesolo. La storia di Naser Ghazal inizia in Palestina. Da qui parte nel 1983 per andare a studiare, a Roma, Marketing del turismo. «Ho scelto l’Italia per passione – racconta perché aveva vinto i Mondiali dell’82 e il mio amore a quell’epoca era il calcio». A Roma incontra il suo futuro nella ristorazione. «Piano piano, non esageriamo. La mia è una famiglia povera, così, da studente andavo a lavare i piatti nei ristoranti, poi facevo il cameriere e ogni tanto anche lo chef in cucina. Non è mancata neppure la raccolta di pomodori. Ma intanto la passione cambiava e, dopo la laurea, con tanta fatica perché a un palestinese nessuno dava credito men che meno le banche, sono riuscito ad aprire un piccolo ristorante a Roma».
Ma quello non era il suo sogno. Ci voleva qualcosa di più originale per sfondare. Bisognava davvero mettere in pratica quello che sapeva e che intuiva. Una vacanza in Veneto e la decisione: si risale lo stivale e ci si butta in una nuova avventura nel nome del kabab. Nella terra della Lega. Ma questa non è una storia di politica. Semmai di cultura gastronomica che abbatte ogni confine e pregiudizio. «L’inizio non è stato facile. Gli italiani non conoscevano affatto il kabab ed erano diffidenti. I miei clienti erano solo immigrati e i miei locali punti di ritrovo solo per loro. Per sopravvivere sapevo di dover allargare il target. Così ho pensato a introdurre nei menu anche la pizza, sempre a base di kabab. E poi qualcosa di divertente per i bambini. Il tutto in un locale pulito, colorato, simpatico, con i camerieri in guanti e cappello. Una cosa diversa insomma, su misura per il cliente italiano. Con tanto di gadget, locali su 4 ruote, gruppo di fan su Facebook… ». L’esperimento ha avuto successo e il cammello con gli occhiali spopola. Oggi l’80 per cento dei clienti è italiano. Famigliole e morosi. Tutti con il panino in mano. Chi va da Naser per un nuovo KababPoint è sei volte su dieci un italiano, anche perché il capitale richiesto per aprire un locale è di 52mila euro.
La catena dà lavoro ormai a quasi quattrocento persone, la grande maggioranza italiani. E promette di crescere oltre confine. «Abbiamo avuto richieste per Romania, Spagna e perfino Marocco — spiega Naser — ma ci muoviamo con prudenza. Prima dobbiamo diventare ancor più forti a livello nazionale e fare attenzione alla concorrenza, spesso sleale, dei grandi gruppi che hanno capito che questo è un mercato che crescerà ancora». Naser è cittadino italiano dal 1987. La sua famiglia d’origine vive sempre in Cisgiordania. Il suo essere un immigrato palestinese gli ha creato problemi più per l’accesso al credito che per altri motivi. «Tante volte mi sono chiesto quante difficoltà avrei incontrato da straniero, qui in Italia, qui in Veneto. Quando ho iniziato sapevo che avrei dovuto accontentarmi, avrei dovuto lavorare a testa bassa, con onestà e sudore per venirne fuori. Così ho fatto. E a tutti quelli che mi parlano di razzismo, a coloro che pensano che l’immigrazione sia solo delinquenza, beh, a tutti questi io rispondo con i fatti. Con il mio lavoro e le mie scelte». Tra queste ci sono un pulmino per il trasporto di persone con handicap, che la Kabab International ha contribuito ad acquistare per il Comune di Zero Branco, e la solidarietà ai terremotati d’Abruzzo ai quali in maggio è stato devoluto l’incasso di una domenica di lavoro.
Macri Puricelli
da IL CORRIERE DELLA SERA