Dom. Mag 19th, 2024

Il ristorante dei Seminole alla conquista dell’Italia
Un nuovo Hard Rock apre a Firenze: “Presto saremo in altre città”.

ANDREA SCANZI

Il cognome lo conoscono in pochi. La chiamano tutti «Lovely Rita». Lavora da quattro decenni all’Hard Rock Cafè di Londra, il primo della serie. C’è anche lei all’inaugurazione della terza sede italiana: Firenze, dopo Roma e Venezia e prima di Milano, perché i proprietari hanno trovato lo spazio giusto qui e non in Lombardia. Lo storico Cinema Gambrinus, in centro. Qualcuno si è opposto, alla fine si è trovata una via di mezzo. Una volta a settimana, all’Hard Rock Cafè si proietterà un film. Ricordo del Gambrinus che fu.

Rita Gilligan – questo il cognome – ha i capelli rossi. Testimoniano la sua origine irlandese. Di rockstar ne ha conosciute tante. «Freddie Mercury: adorabile. E poi i Beatles. John Lenveniva nel locale e scherzava sempre con Paul».
Una rivelazione, nel suo piccolo. «Quando Hard Rock aprì eravamo in 46, ora esiste in 52 Paesi. Andavi al lavoro e non sapevi cosa poteva capitarti. Di colpo arrivarono rock’n’roll, jeans, capelli lunghi e birra tracannata. Il paradiso in terra».

Hard Rock Cafè ha compiuto 40 anni il 14 giugno. Ieri c’erano i Simple Minds in piazza e Piero Pelù per la nottata vip. Il sindaco Matteo Renzi ha partecipato al consueto «Guitar smash», la chitarra spaccata che ricorda il varo delle navi e uno dei riti maledetti (più o meno) sul palco.

L’Italia è il Paese più affezionato agli Hard Rock. I proprietari lo hanno capito attraverso la Rete e i social network. Colpisce che questo colosso, a metà tra ristorazione e memorabilia, appartenga a una tribù di nativi d’America. I Seminole, l’unica nazione indiana che non concluse mai accordi con i bianchi.
Nell’idioma Creek, Seminole vuol dire «transfughi». Si stabilirono in Florida nel XVIII secolo. Gli ultimi ad arrendersi, i primi a rinascere. Tabacco, turismo, gioco d’azzardo. Economia florida (appunto), che gli ha permesso di acquistare nel 2007 la catena per una spesa pari a un miliardo di dollari.

Il binomio indiani-rock incuriosisce, ma il presidente Hamish Dodds smonta eventuali romanticismi. «I Seminole seguivano già in franchising gli Hard Rock Cafè nei casinò. Hanno comprato tutto perché non volevano che il mercato fosse rovinato da nuovi acquirenti. Gli interessa il business, per cui non intervengono sulle scelte artistiche».
Nel tardo pomeriggio ci si prepara all’evento. I camerieri vengono motivati dai proprietari, stile Sabrina Ferilli in «Tutta la vita davanti» (più garbatamente, per fortuna). Il menù è il solito, da McDonald’s di lusso, con concessioni locali a bistecca e tiramisù. Patatine fritte a quattro euro, portata principale (abbondante) sui 15. Ovunque, cimeli. Poca Italia – Pfm, Elio e le Storie Tese – e qualche abominio trash, tipo un cappellaccio di Britney Spears.

L’incanto feticistico, di cui da sempre i nativi s’intendono, è altrove. Le spille di Jimi Hendrix, la chitarra di Santana a Woodstock, la vespa modificata di Quadrophenia che guidava Sting. «All’inizio i cimeli non c’erano, poi Clapton ci mandò una chitarra da appendere sopra il tavolo in cui sedeva a Londra: come segnaposto. Era la fine dei Settanta. Una settimana dopo lo fecero gli Who. Da allora è un continuo: in parte li acquistiamo e in parte ce le donano le star».

Hard Rock è museo pop che si rigenera. Il merchandising è fondamentale. Magliette, soprattutto. Quelle con il logo storico. Anche per beneficenza. «Nacquero per caso – ricorda Rita -. Una squadretta di calcio chiese uno sponsor, erano 16 ragazzini. Stampammo 20 T-shirt beige. Le quattro rimaste le proponemmo ai turisti. In breve divenne la maggiore entrata economica».

A Firenze i muri sono spesso tristi. La maglia rossa di Buddy Holly, morto troppo presto. Quella che Elvis indossava negli ultimi anni. I pantaloni scintillanti di Michael Jackson un anno prima di Thriller. La lettera della madre di Sid Vicious al fidanzato, in cui temeva che il figlio potesse suicidarsi: accadde tre mesi dopo. Meglio virare su Springsteen. C’è un vecchio appunto autografo, vergato per imbonire la folla di Milano nell’89. È in italiano maccheronico, con tanto di accenti posticci. Testuale: «Questa una cansone de un ragatzo de una cheetah in America. Obezenyo di multo silencio o cauzi pausso darvi il mellyo di me». Traduzione spiccia: «Vi canto qualcosa, se state zitti viene meglio». Scritta così, però, la magia evapora.

da LASTAMPA.IT

Di Margiov